Dal 1° febbraio sono morti 6773 anziani solo nelle Rsa e il 40% per Covid-19. E’ la strage silenziosa dei nonni d’Italia. Contagiati e uccisi a causa del coronavirus nelle strutture di assistenza dove sono ospitati e in alcuni casi persino lasciati infettati e soli da chi invece dovrebbe accudirli. Un dramma senza fine a cui si aggiungono gli anziani che muoiono tra le mura domestiche, da soli, senza che nessuno se ne accorga. La riflessione di Anna Paola Fabri, vicepresidente polo9.
L’elenco delle vittime e dei malati di Covid-19 si allunga ogni giorno, il virus corre veloce e colpisce per primi proprio i più fragili, quelli in là con gli anni. Ovunque. Chi opera nel terzo settore solitamente non teme di “avvicinarsi” e sa accogliere il proprio dolore e quello degli altri. Ciò che vediamo, sentiamo, tocchiamo non ci fa paura: neanche la morte. Questa prospettiva ci dà la forza di ricomporre sempre un equilibrio e quindi anche il senso stesso della morte. Tuttavia per non farci annientare dalla fine abbiamo bisogno della vicinanza: stare vicini alla morte ma anche a chi, ancora, vive. Non siamo programmati alla dimensione dell’assenza, non riusciamo a “sentire”e a convincerci che qualcuno non ci sia più. Abbiamo bisogno di sostare accanto alla morte di chi amiamo. E abbiamo bisogno di sentire che le persone morte sono state amate da altri: ci da conforto continuare a sentirle vive negli incontri che hanno fatto, nelle parole che hanno detto, nelle esperienze che hanno condiviso. Poi subentra il coraggio, quello di prendere coscienza della morte, del suo gelo e del suo mistero. Comprendere la misura del tempo, dare attenzione al limite e alla fragilità, considerarci parte del genere umano, di una storia, di uno spazio. E poi il dolore che viene da ciò che non possiamo più ricevere dalla persona che abbiamo perso e di ciò di cui siamo più bisognosi: il suo amore. Piangere i morti è anche ringraziarli. Abbiamo diritto alle lacrime, agli abbracci, ai racconti pieni di vita, per rivederla presente in chi ora non vive più.
Ora, questo tempo della morte per pandemia è particolarmente ignobile e inumano: è un tempo disorientante, perché i malati scompaiono dalla vista dei propri cari e della loro comunità. La scelta dell’allontanamento “sociale” affievolisce i contatti, inaridisce la prossimità e sospende i gesti di umana solidarietà anche solo di un contatto o di piccoli favori. La proibizione di un momento di raccoglimento e di saluto insieme fa bloccare la narrazione dei ricordi che riempie di serenità la spazio profondo degli affetti e lascia dentro qualcosa di inespresso e insoddisfatto. È più difficile chiudere con il dolore. Un dolore intimo, di persone, famiglie e affetti vicini ma anche di comunità, di una società, di diverse culture e quindi di umanità a cui si può rispondere solo attingendo ai nostri depositi di memoria e reagire esprimendo i nostri affetti senza misura. La consolazione di offrire e ricevere gesti di condivisione e soprattutto maturare la consapevolezza e la decisione di appartenere ad una comunità di relazioni vere perché ci siano da compagnia in tempi di durezza e sconvolgimenti anche quando l’emergenza sarà passata.
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